Il robot pensante
     “Uno due e tre, chi non scappa resta a me”. Giocavano a nascondino e si rincorrevano i bambini, nel giardino del paese. Il più piccolo della compagnia era in dubbio se nascondersi dietro il baracchino della giostra o sotto la scala che portava al mare, quando gli parve di sentire, proveniente da una siepe, un lamento. Si diresse verso quella parte; quando vi giunse, sgranò gli occhi e rimase a bocca aperta. Ripresosi dalla sorpresa: “Toh, un robot!” esclamò.

     Luccicava ai raggi del sole al tramonto un essere fantastico, il quale, a piccoli passi stentati, si avvicinò ad una palma e vi si appoggiò. Emetteva un lamento dal timbro metallico e l’espressione del volto era malinconica, quasi triste.

     Scrutandolo, il bambino gli chiese: “Da dove spunti, cosa t’è successo?”

     E il robot: “Aiutami, ti prego, sto molto male”.

     “Lo vedo. Ti ci vorrebbe… stavo dicendo un medico, come per noi bambini quando abbiamo la febbre”.

     “Avvicinati, e ti dirò io cosa devi fare”, disse il robot. La sua voce era fièvole, sovrastata dai rumori e dalle grida dei bambini.

     “Sai che dovrei lasciarti morire?” disse con voce improvvisamente risentita il bambino. “Sei tu che hai rubato il lavoro a mio padre? Sai ch’è rimasto disoccupato?” E avvicinandosi esitante: “Come ti chiami?”

     “Pink”.

     “Da dove vieni?”

     “Dal mare”.

     “Devi nuotare molto bene, perché mi sembri un po’ pesante, o vai a motore?”

     “Fai presto, ti prego, avvicinati”.

     Il bambino si decise finalmente a fare l’ultimo passo. Aveva quasi la sua stessa statura, ma il robot era più robusto. Lo guardò negli occhi, quegli occhi dal colore indefinibile e lenti, e gli sembrò di scorgervi un sorriso.

     “Tocca il pulsantino verde che vedi alla mia sinistra; la materia delle mie mani non è adatta al mio sistema”, disse il robot.

     Trepidante il bambino toccò il piccolo pulsante, e si aprì uno sportellino all’altezza del cuore. Vi guardò dentro e, scuotendo il capo: “Sai che sei davvero conciato male, qui non c’è nemmeno il cuore!...”

     E il robot: “Non è come il tuo, ma c’è, c’è”. E aggiunse con voce sempre più flèbile: “Fai presto, ti prego, tocca il pulsantino rosso che c’è dentro”.

     Il bambino questa volta eseguì deciso. Per un momento il robot rimase in silenzio, poi con tono rassegnato: “Non fa niente, grazie lo stesso, richiudi pure lo sportellino”. E poiché il robot tacque, il bambino chiese premuroso: “Cos’altro  vuoi che ‘faccio’?”

     “Niente, niente”, disse il robot, carezzandogli lievemente i biondi capelli e fissando i suoi occhi azzurri. “Anzi, esprimi un tuo desiderio”.

     Il bambino lo guardò confuso. Proprio in quel momento, si sentì chiamare dai compagni: “Topolino! Topolino! Dove ti sei cacciato?” Lo avevano soprannominato così, per la sua gracilità e per la vivacità dei suoi occhietti.

     “Sono qui, correte, c’è un robot, un robot!...”

     Giunsero di corsa, ansanti.

     “Davvero, un robot!” esclamarono.

     Lo attorniarono. Il capo della compagnia, agitando le sue robuste braccia, come al solito occupò il posto migliore.

     “Com’è che l’hai visto tu?” chiese a Topolino, come se gli avesse fatto un affronto.

     “Così, per caso. E’ straordinario, non è vero? Si chiama Pink, e parla, parla”.

     “Ma va’, parla…” disse il capo, spintonandolo.

     “Vi dico che parla”, insistette Topolino. “Non ho capito da dove gli esce il fiato, ma parla”.

     “Te lo dico io da dove gli esce il fiato a questo: dal culo gli esce!...” sentenziò il capo.

     “Che ha detto?” sibilò il robot.

     “Non dargli retta, è uno sporcaccione”, disse temerario Topolino. E saltando trionfante: “Visto se parla!”

     “Parla, parla!...” gridarono tutti in coro. E il capo, avvicinandosi ancora di più al robot quasi a sfiorargli il viso con il suo testone: “Sentiamo, di’ qualche altra parola”.

     “Sporcacc…”

     Scoppiarono tutti a ridere, e non si accorsero che Pink non era nemmeno riuscito a pronunziare per intero la parola.

     “Ora basta, vi siete divertiti abbastanza, su che devo chiudere”, intimò una voce alle loro spalle. Era il giostraio che, facendosi largo, si avvicinò al robot e gli passò un braccio attorno alla vita come per sollevarlo.

     “Lascialo, è mio, è il mio amico!” protestò Topolino.

     Tutti tentarono d’impedire il “rapimento”; ma il giostraio usò le cattive maniere, e soltanto quando si accorse ch’erano vicini a cedere allungò al capo una moneta dicendo: “Andate a prendervi il gelato”.

     Rimasto solo, il giostraio scrutò a suo agio il sorprendente robot. Poi amichevolmente: “Allora, bello, che mi dici?” Nessuna risposta. “Si può sapere da dove salti fuori?” Zitto. Infine, spazientito: “Bada che il sottoscritto non è il semplice giostraio che tutti credono: illusionista occultista indovino, per servirti. Vedrai che parlerai”. Lo sollevò a fatica e si diresse verso casa sua.

     Il sole era ormai tramontato. Saliva dal mare un gradevole odor di salsedine, che si mescolava ai primi profumi della primavera.

  *      *      *

     La notizia del rinvenimento del robot si diffuse per tutto il paese. La casa del giostraio fu presa d’assalto: si voleva sapere se il robot davvero parlasse e soprattutto se fosse in grado, come si diceva, d’esaudire ogni desiderio; insomma se fosse dotato di qualità soprannaturali. Si sussurrava già di prodigi; molti avevano in mente almeno una richiesta da fare; e sì, perché non era giusto che di eventuali benefici ne godesse solamente il giostraio. Qualcuno propose il sequestro del robot. Pink era nella bocca e nel cuore di tutti.

     E tanto si disse e tanto si fece, che dovettero intervenire le autorità. Fu deciso che il robot rimanesse pure in casa del giostraio, che lo custodisse diligentemente, in attesa della nomina d’una commissione che lo esaminasse.

     Poiché si ritenne opportuno cominciare ad accertare se Pink fosse davvero in grado di parlare, l’incarico fu affidato a tre glottologi; i quali, dopo approfondito e sofferto esame, emisero il lapidario verdetto: “Il robot, più che parlare, pensa”.

     Molti rimasero delusi. “Pensa?” si chiesero: “e che pensa? E quanto pensa?”

     A furor di popolo si pretese che la cosa fosse approfondita; e, a questo punto le cose si complicarono. Non che in paese mancassero persone in grado di capire il pensiero di un robot; ma perché si pretendeva che, trattandosi di pensiero, il giudizio fosse il più obiettivo possibile. Pertanto, fu bandito un concorso a carattere nazionale.

     Il giorno fissato per la selezione, di buon’ora, la piazza del paese brulicava di gente: paesani curiosi e forestieri. Flash e telecamere si misero in azione; i più corteggiati erano ancora il giostraio e Topolino.

     Quand’ecco, da un angolo della piazza, venire un vocìo sempre crescente. E’ che un tale rivendicava la paternità del robot, con tanto di documentazione, cioè un libro intitolato “Il robot pensante”, dove erano descritti vita e miracoli di Pink.

     Quasi tutti trassero un sospiro di sollievo, convinti che il caso fosse risolto. Ma ecco spuntare da un lato della piazza un altro signore, anche lui a rivendicare la paternità del robot; e, quasi contemporaneamente, un altro dal lato opposto con la stessa pretesa. Entrambi con tanto di documentazione, anzi anche loro un libro, e guarda caso, con lo stesso titolo del primo.

     I tre furono messi a confronto; si somigliavano in modo impressionante, li avresti detti tre padri gemelli. Ma le loro tesi erano differenti. Secondo il primo, Pink era il tentativo mal riuscito di imitazione dell’uomo; per il secondo, Pink era dotato delle qualità d’un uomo normale; per il terzo, Pink trascendeva i limiti della natura umana, era quasi una divinità. Poiché almeno due mentivano, furono esclusi dalla selezione tutt’e tre.

     La commissione eletta, dopo aver analizzato il robot, per così dire al microscopio, sentenziò che in Pink non c’era traccia di pensiero, anzi non c’era segno di vita. Si trattava insomma  di un relitto da rottamare. Pertanto, fu riconsegnato al giostraio, che ne disponesse a sua discrezione.

     Fu una delusione generale: addio sperati benefici. E a suscitare più amarezza, da quel giorno in quel paese, le cose sembrava andassero peggio del solito. A un certo punto si pensò che fosse proprio il robot a portare ièlla, e fu deciso di dargli una bella lezione.

     Un bel mattino, si radunarono in molti davanti all’abitazione del giostraio, il quale, senza opporre resistenza, li accompagnò al box dove ancora custodiva il robot. Disinnesta l’allarme; armeggia le serrature; e, con il classico gesto con cui un prestigiatore presenta al pubblico un gran numero, solleva la saracinesca, e: “Uno, due… e tre…” Il robot non c’è.

     Rimasero tutti di meraviglia e di risentimento pervasi. Il giostraio fu minacciato d’ogni male; si scatenò la caccia al robot, ma inutilmente.

     Non si seppe mai come Pink fosse scomparso né che fine abbia fatto. A volte arriva in paese qualche forestiero e chiede del robot. Allora il giostraio, che nel frattempo ha aperto un lussuoso club, ripete tra l’altro: 2Dovevate vedere che faccia ha fatto quando sentì che volevano sequestrarlo o quando seppe che volevano approfondire il suo pensiero”. E Topolino, indicando il posto dove l’aveva rinvenuto: “Era qui, bello come un dio, parlava e piangeva”.

     Sono cambiate molte cose in quel paese, ma i bambini ancora si rincorrono e continuano a giocare a nascondino: “Uno, due… e tre..."

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Commenti più recenti

14.11 | 17:22

buonasera Beniamino, sono Rossana dell UNITRE, vorrei acquistare il suo libro in duplice copia, come mi devo regolare?Lei come sta? Scrive nuovi libri? SALUTI

13.12 | 17:28

bravo Beniamino, ammirevoli la costanza, la bravura, l'impegno nella stesura di queste opere, così complesse, con risultati veramente eccellenti