LA PESTILENZA
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     Dalle prime operazioni di questa guerra, i Peloponnesi inflissero molti danni agli Ateniesi in terraferma, ma questi non furono di meno sul mare; ed era chiaro che i nemici non avrebbero continuato a lungo a battagliare, e si sarebbero ritirati, come previsto da Pericle.

     Ma successe un fatto che molti ritennero di carattere divino, soprattutto i nemici di Atene, una punizione per la tracotanza della città: una terribile pestilenza. Ma Zeus rassicurò Atena che non era dovuta a un intervento suo né degli altri Dèi.

     E come se la pestilenza non bastasse, mentre Pericle, per cercare di sollevare il popolo e infliggere qualche danno al nemico, allestite cento navi con molti opliti e cavalieri si preparava a salpare, si verificò un’eclisse di sole che, ritenendolo uno strano prodigio, un cattivo presagio, scosse ancor più gli animi e lo stesso pilota della sua trireme. Pericle spiegò che si trattava di un semplice fenomeno naturale e, rincuoratolo, salpò. Ma per la pestilenza non vi fu rimedio.

     Sono avvolte nel mistero  le origini e le cause di questa pandemia. Secondo Tucidide, lui stesso affetto:

     “Dapprima, a quanto si dice, la pestilenza cominciò in Etiopia, sopra l’Egitto, poi sorse anche in Egitto e in Libia. (……) Ad Atene piombò improvvisamente, e dapprima contagiò gli uomini del Pireo, così che dagli Ateniesi si disse che i Peloponnesi avevano gettato dei veleni nelle cisterne del Pireo. Successivamente la pestilenza raggiunse anche la città alta, e allora gli uomini morivano in maggior numero”.102

     E così prosegue:

(……) “Non bastavano a curarla neppure i medici, i quali, non conoscendo la natura del male, lo trattavano per la prima volta; anzi loro stessi morivano più degli altri, in quanto più degli altri si accostavano ai malati, e nessun’altra arte umana bastava contro la pestilenza. Tutte le suppliche fatte nei templi o si ricorresse agli oracoli e a cose del genere si rivelarono inutili, e alla fine gli uomini abbandonarono questi espedienti, vinti dal morbo”.103

     E Tucidide prosegue descrivendo i sintomi e l’evolversi del male:

(……) “(Le persone) erano prese improvvisamente, senza nessuna ragione, mentre godevano perfetta salute, innanzitutto da forti calori alla testa e da arrossamenti e da bruciori agli occhi; le parti interne, cioè la gola e la lingua diventavano di color sangue ed emettevano un alito disgustoso e fetido. (……) E il corpo era rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; le parti interne ardevano a tal punto da non poter sopportare le vesti più leggere, né altro che andare nudi, e il gettarsi con sollievo nell’acqua fredda. (……) La maggior parte morivano nel nono giorno o nel settimo per l’ardore interno, quando ancora avevano qualche forza; oppure, se scampavano, dopo che la malattia era scesa negli intestini, e col prodursi di una forte ulcerazione e il sopraggiungere di una violenta diarrea, i più morivano in seguito per spossamento. Il male, il quale dapprima si era localizzato nella testa, invadeva i genitali, la punta dei piedi e delle mani; e molti si salvavano con la perdita di queste parti, alcuni anche degli occhi. Altri, guariti, erano presi subito da dimenticanza di ogni cosa, e non riconoscevano se stessi e i loro congiunti.104

(……) “In questo particolare soprattutto il morbo mostrò di essere diverso da uno dei soliti: quegli uccelli e quadrupedi che si cibano dei cadaveri, sebbene molti ne fossero stati lasciati insepolti, o non vi si avvicinavano o, dopo averne gustato le carni, morivano”.105

 

(……) “Il fatto più terribile della malattia era lo scoraggiamento da cui uno era preso quando si sentiva male (subito, datosi col pensiero alla disperazione si lasciava andare molto di più e non resisteva), e il fatto che per curarsi a vicenda si contagiavano e morivano l’uno dopo l’altro, come le pecore, e questo causava la strage maggiore. Se per timore non volevano recarsi l’uno dall’altro, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per mancanza di uno che prestasse le cure necessarie”.106 (……)

 

     “Aumentava la loro difficoltà, oltre alla malattia, anche l’afflusso della gente dai campi alla città; e soprattutto erano in difficoltà i nuovi arrivati. Non esistendo case per loro, ma abitando d’estate in baracche soffocanti, la strage avveniva nel massimo disordine e, morendo l’uno sull’altro, giacevano a terra cadaveri, e si voltolavano nelle strade e attorno alle fontane, mezzo morti, per desiderio d’acqua. I luoghi sacri in cui si erano attendati erano pieni di cadaveri. (……) Tutte le consuetudini che prima avevano nel celebrare gli uffici funebri furono sconvolte. E si seppelliva come ciascuno poteva”.107  (……)

 

     “E anche in altre cose, nella città, il morbo dètte l’inizio a numerose infrazioni delle leggi. Più agevolmente uno osava quello che prima si guardava dal fare per suo proprio comodo, perché vedeva avvenire un rapido mutamento tra coloro che erano felici e morivano improvvisamente e coloro che prima non possedevano nulla e avevano poi i beni degli altri. (……) Nessun timore degli dèi o legge degli uomini li tratteneva, perché da un lato consideravano indifferente esser religiosi o no, dato che tutti senza distinzione morivano, e dall’altro, perché nessuno si aspettava di vivere fino a dover rendere conto  dei suoi misfatti e scontarne la pena; essi consideravano piuttosto che una punizione molto più grande  era già stata sentenziata ai loro danni e pendeva sulle loro teste, per cui era naturale godere qualcosa della vita prima che tale punizione piombasse su di loro”.108

 

     Atena molto si doleva nel vedere il suo popolo così mal ridotto, ma i suoi interventi non erano risolutivi.

     Intanto Pericle e la sua spedizione giunti a Epidauro, nel Peloponneso, devastarono gran parte della terra, ma senza riuscire a conquistare la città; devastarono altre località costiere, poi tornarono nell’Attica, dove non trovarono più i Peloponnesi, i quali si erano ritirati per paura della pestilenza.

     Dopo la seconda invasione dei Peloponnesi, gli Ateniesi cominciarono ad accusare Pericle come colpevole di averli indotti alla guerra; e, Pericle, vedendoli infuriati, nell’intento d’incoraggiarli e infondere loro fiducia, convocò l’assemblea; e, tra le altre cose disse:

     “Quello che viene dagli dèi bisogna sopportarlo con rassegnazione, quello che viene dai nemici virilmente: questa era infatti una volta l’abitudine della nostra città e ora, per quanto sta in voi, deve essere mantenuta”.109

     Ma i suoi nemici aristocratici conservatori, con l’intento di colpirlo, eliminarono i suoi intimi amici: Anassagora, che invece di Zeus parlava di νοῦσ, mente, accusato di empietà, si rifugiò a Làmpsaco sull’Ellesponto, dove finì i suoi giorni; lo scultore dell’acropoli di Atene e della colossale statua di Zeus per il tempio di Olimpia,110 Fidia, fu incriminato con l’accusa di essersi appropriato di una parte dell’oro che doveva servire a decorare la statua di Atena; e, siccome riuscì a scagionarsi, fu accusato anche lui di empietà per aver raffigurato se stesso sullo scudo della Dea e rinchiuso in carcere, dove morì.

     Ma Pericle ebbe anche dei dispiaceri familiari: Xantippo, che mal sopportava la parsimoniosa gestione del patrimonio paterno, cominciò a diffamarlo; a causa dell’epidemia, perse la sorella e poi entrambi i figli legittimi, Xantippo e Parolo; e, solo quando si recò a deporre una corona sulla tomba di quest’ultimo, si vide piangere l’Olimpio.

     “A questo punto anche Pericle fu colpito dalla pestilenza, non però con uno attacco acuto e virulento, come gli altri, ma, a quel che sembra, in una forma blanda, il cui lento decorso, segnato da alterne manifestazioni, logorò lentamente il suo corpo e fiaccò il vigore del suo spirito”.111

     Pericle fu un uomo onesto: concluse il suo lungo periodo politico con lo stesso patrimonio con cui l’aveva iniziato; e, pur avendo concentrato in sé il governo di Atene, anche nei suoi momenti più critici, non abusò del suo grande potere per fini personali.

     Gli Ateniesi lo elessero alle supreme cariche, anno dopo anno, per quasi quarant’anni di seguito; e, benché la sua vita malinconicamente e nell’ingratitudine si concluse, la Storia ha finito per dare il suo nome al periodo più splendido di Atene: l’”Età di Pericle”.

     L’epidemia continuò a mietere vittime, ed Hermes ebbe il suo bel daffare ad accompagnare tutte quelle anime nel regno di Ade. Ma una sera decise di andare a casa di Melissia. La trovò a letto, malata e molto provata, assistita dalla sua schiava. Appena lo vide:

     “Oh, Aristide! finalmente, ti abbiamo tanto aspettato…”

     “Ti racconterò”.

     “Mio padre è morto e anche mio fratello”.

     Respirava a fatica, era febbricitante, il volto rossastro era deturpato da petécchie, solo gli occhi erano ancora belli. La sua amica, che andava spesso a trovarla, ripeteva alle altre amiche:

     “Era troppo bella, ha destato l’invidia di qualche dea”.

     La lucernetta di terracotta emanava una luce incerta, fumigava, sembrava che si potesse spegnere da un momento all’altro.

     “Vai pure”, disse Melissia alla schiava, e tentò di sollevarsi. E guardando Aristide:

     “Non sei cambiato affatto, io…”

     “Lo so, e sono venuto a prenderti”.

     “Dove mi porti?”

     “In un posto meraviglioso”.

     “Portami sul terrazzo”.

     Hermes la prese fra le braccia e uscì. Era un plenilunio, era il periodo delle Liridi, le ‘stelle cadenti’ di primavera. Le pianticelle sul muretto di cinta erano appassite.

     “La mia bella Atene, chi l’avrebbe detto…” sospirò Melissia. “Ma io non credo che i nostri Dei ci hanno abbandonato”.

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Commenti più recenti

14.11 | 17:22

buonasera Beniamino, sono Rossana dell UNITRE, vorrei acquistare il suo libro in duplice copia, come mi devo regolare?Lei come sta? Scrive nuovi libri? SALUTI

13.12 | 17:28

bravo Beniamino, ammirevoli la costanza, la bravura, l'impegno nella stesura di queste opere, così complesse, con risultati veramente eccellenti