ATENE IN FESTA

ATENE   IN   FESTA

     Hermes stava pensando di ritornare in Olimpo per riferire a Zeus quanto aveva appreso su Socrate, quando successe qualcosa che gli fece cambiare idea.

     Il sole si era levato da poco ed Hermes percorreva la strada per Eleutere già affollata, allorché gli giunsero all’orecchio suoni di timpani e di flauti, e rumori di schiamazzi. Atene era in festa, si celebravano le Grandi Dionisie in onore del dio Dioniso, una festa religiosa, culturale e politica insieme, una delle numerosissime feste che si celebravano in città.

     Istituita da Pisistrato, 38 era la maggiore delle quattro feste 39 dedicate a Dioniso, e per partecipazione di popolo, splendore e varietà di riti, seconda solo alle Panatenee 40 in onore di Atena, protettrice di Atene.

     Era il 9 di Elafobolione (’Eλαϕηβολιών: marzo-aprile), il secondo dei sei giorni 41 di durata della festa. Il giorno prima, dopo una serie di sacrifici e di riti iniziali, aveva avuto luogo il proagone; frattanto la statua di Dioniso era stata trasferita con una processione dal suo santuario vicino al teatro alle pendici dell'Acropoli ad un tempio fuori città, sulla strada per Eleutere; ed ora veniva riportata indietro con una solenne processione, la Pompé, celebrando il primo arrivo della statua e l’introduzione del culto di Dioniso da Eleutere, una cittadina al confine tra Attica e Beozia, ad Atene. Era il Dio che ritornava per mare portando con la primavera la gioia di vivere.

     Dioniso, un dio dalla personalità complessa e anomalo fin dalla nascita. Figlio di Zeus e di una madre mortale, Semele, figlia del re di Tebe, Cadmo, e della dea Arianna, al tempo dei loro amori segreti, Era, gelosa, decise di vendicarsi di Semele, già incinta di sei mesi: le apparve in sogno nelle vesti della sua nutrice e, insinuandole il dubbio che il suo amante non sia Zeus, la convinse a chiedergli di mostrarsi a lei in tutto il suo splendore, come appariva a sua moglie. Zeus, che le aveva promesso di esaudire ogni sua richiesta, l’accontentò e venne a visitarla tra tuoni e lampi, e Semele restò folgorata e ridotta in cenere. Zeus, però, riuscì a salvare il feto di Dioniso dalle fiamme e lo cucì nella sua coscia fino alla nascita; onde gli epiteti: Dimètor (Διμήτωρ: colui che ha due madri, nato due volte); Eiraphiòtes (Eἰραϕιώτης: cucito nella coscia); Bròmios (Bρόμιoς : rumoroso, il dio del tuono).

     Allevato dalle ninfe Iadi, in seguito trasformate in un gruppo di stelle, Dioniso divenne un giovinetto effeminato, che Era fece impazzire; allora andò vagando per il mondo seguito da un fragoroso corteo di Satiri 42 e Menadi, 43 portando sempre con sé la pianta della vite e insegnando l’arte della viticoltura.

     Nelle sue peregrinazioni, Dioniso sconfisse i Titani; 44 fu catturato da alcuni pirati che volevano depredarlo e venderlo come schiavo; allora prima germogliò e s’avvolse attorno all’albero  della nave un’edera, poi lui si trasformò in un ruggente leone e li terrorizzò al punto che si gettarono in mare e li mutò in delfini; a Nasso 45 sposò Arianna, 46 abbandonata da Teseo. 47 Vagò fino a raggiungere l’India; poi discese nell’Ade, riprese la madre Semele, a cui cambiò il nome in Tione “regina invasata” e, risanato dalla pazzia, con lei ascese all’Olimpo,

     Intanto il suo culto si era diffuso in tutto il mondo, mentre molti luoghi si contendevano l’onore di avergli dato i natali, tra cui Dracano, 48 Icaro, 49 Nasso e Tebe; 50 ma vattelapesca dove s’era cacciato Zeus.

     Anche le feste che si celebravano in onore di Dioniso erano diventate sempre più splendide e imponenti. Le Grandi Dionisie erano organizzate dall’arconte eponimo 51 insieme ad una commissione, ma vi era impegnata buona parte della comunità.

     L’intera Atene era in festa; pace e armonia dovevano regnare, perfino i prigionieri venivano temporaneamente liberati dal carcere, per permettere loro di unirsi al culto del Dio. Le strade continuavano ad affollarsi, l’afflusso era enorme; Hermes si fermò ad un angolo della strada.

     Con l’arrivo della bella stagione, il mare era tornato navigabile, nel Pireo era un continuo sbarco di stranieri provenienti d’ogni parte, sia per le Dionisie, sia per ammirare le magnificenze di Atene. E la città aveva fatto di tutto per mettersi in mostra.

     In seguito alla vittoria di Maratona 52 e a quella quasi miracolosa di Salamina 53 conseguite sui Persiani ed essendo la civiltà greca salva, Atene si preoccupò della sicurezza. Il primo passo fu la costituzione di una confederazione di città, la Lega di Delo, nata per assicurare la difesa collettiva contro il nemico comune, l’impero persiano, con un fondo tenuto nel santuario di Apollo nell’isola sacra di Delo, 54 e il cui comando fu riconosciuto al membro più potente, cioè la stessa Atene. Le poleis componenti si impegnarono a contribuire con il versamento di un tributo annuo oppure con la fornitura di navi.

     Fu allestita una potente flotta. Atene, che nella Lega ebbe un posto preminente, crebbe in potenza e prosperità; la città, devastata dai Persiani, fu ricostruita e fortificata; i suoi commerci fiorirono; e divenne un punto d’incontro di filosofi, poeti e artisti provenienti da ogni parte del mondo ellenico. Si diffuse una gara per il bello e per il grande; l’arte produsse capolavori ineguagliabili: sorsero templi, edifici, monumenti. La democrazia, che con la riforma di Solone, 55 Clistene, 56 Temistocle ed Efialte 57 si era affermata, venne perfezionata da Pericle. Ci furono altre guerre, 58 ma la sua potenza non ne risentì.

     Atene, diventata un impero, aveva raggiunto ora il suo massimo splendore. Se a tutto questo si aggiunge la benevolenza degli dèi, assicurata con la costruzione di templi e con i culti, e la protezione di Atena, la città si riteneva ormai invincibile.

     Anche Hermes aveva avuto modo di ammirare la magnificenza di Atene; ovunque si respirava aria di benessere e di festa. Intanto i suoni, i canti e gli schiamazzi erano diventati sempre più forti, quasi assordanti. E comparvero alcuni Sileni 59 vestiti di porpora, che con ampi gesti cercavano di tenere lontano la folla, gridando: “Fate largo, fate largo, aprite la strada al Dio!”. Poi i primi suonatori di flauto, e dei Satiri, i volti dipinti di minio, recanti fiaccole dorate.

     Seguiva un altare rivestito di foglie d’edera dorate, con in mezzo una corona d’oro e tralci di vite; e dietro due Sileni; uno aveva un bastone da araldo d’oro, l’altro una tromba. Poi, dei bambini in chitoni purpurei che portavano due bruciaprofumi e dei vassoi con incenso e mirra; e dei giovani con anfore d’acqua rituale e vassoi d’offerta.

     Ed ecco avanzare Dioniso, in uno splendido chitone giallo intessuto d’oro, coperto di fiori e ghirlande, con una corona d’oro sulla testa, troneggiante sopra un carro-trireme, con il ϰάνϑαρος 60

d’oro in mano, davanti un cratere, 61 in atto di brindare a suon di musica, circondato e assecondato da un gioioso saltellante corteggio di Satiri e Sileni con mantelli purpurei e sulla testa anch’essi corone d’oro e rami d’edera; alcuni portavano un οἰνοχόη, 62 altri una coppa d’oro, altri fiaccole dorate. Accompagnate dal fragore dei cembali, alcune Menadi volteggianti, i capelli sciolti, agitavano il tirso e suonavano tamburelli al grido euohé euohé. Sopra al carro era stesa una tenda decorata con rami d’edera e di vite, da cui pendevano dondolandosi corone, tirsi, tamburi, maschere e altri oggetti rituali.

     Venivano poi Priapo 63 accompagnato da un asino e il dio Pan 64 con la sua siringa, ma non suonava perché i flauti e i tamburi andavano a mille; qui anche la giocosa cetra di Apollo nulla avrebbe potuto, e non c’era posto per la contemplazione. Questo è Dioniso, il dio della rinascita della natura, il dio fallico della fecondazione e della rigenerazione, dell’esuberante vita naturale, il signore dell’estasi, dell’ebbrezza e della sfrenatezza, l’altro aspetto, oltre a quello apollineo, dell’arte e del mondo greco, divenuto tanto possente da essere accolto anche in Olimpo con tutti gli onori dagli altri dèi, a scapito della vergine Estia, dea del focolare domestico.

     Seguivano, il sacerdote di Dioniso, sacerdoti e sacerdotesse, e tutti gli addetti ai riti sacri. Poi un altro carro su cui erano trasportati i tripodi e le corone, quali premi ai vincitori degli agoni drammatici.

     Hermes si era avvicinato quanto poté a guardare, e guardò e riguardò con interesse perché quella fanciulla, che ora avanzava con una cesta dorata appoggiata sulla testa, gli pareva di riconoscerla: sì, era proprio lei, Melissia, la ragazza incontrata al suo arrivo presso la fontana. Era la prima coefora, il volto raggiante, i biondi capelli arricciati all’indietro, avvolta da un peplo fissato con una cintura, un portamento vivace ed elegante. Anche lei lo vide e lo riconobbe. Hermes le accennò un saluto, lei ricambiò con un sorriso. E apparve bella, molto bella, anche agli occhi del Dio.

     Seguivano altre fanciulle con ceste dorate in cui erano riposti alcuni oggetti sacri del culto; poi sfilavano gli orfani di guerra vestiti di bianco, gli efebi, 65 i coreghi 66 vestiti con straordinario sfarzo, magistrati, cavalieri, meteci 67 in abito scarlatto, delegazioni degli alleati provenienti da tutta la Grecia recanti i tributi annuali; e uomini e donne, bambini e anziani, molti con il volto coperto con le maschere; alcuni a piedi, altri su carri. E tutti, liberi e schiavi, partecipavano ai canti e alle danze; e, partecipando al rito comune, abbandonandosi alla sfrenata voglia di vivere, ognuno si sentiva trasfigurato, si sentivano un tutt’uno, come in un mondo magico. Era il miracolo del Dio.

     Avanzava ora, trasportato da un altro carro, un enorme fallo dipinto, avvolto in rami d’edera e fili d’oro, avente alla sommità una stella d’oro; era circondato da un coro di persone che, saltellando, intonavano canti fallici.

     Era consuetudine che, in ricorrenza delle Grandi Dionisie, i coloni di Brea, a seguito di un decreto, inviassero un fallo per Dioniso; ogni volta s’industriavano a costruirne uno più lungo e robusto dei precedenti, e il legno si sprecava. Questo sembrava un campanile. Ogni tanto si levava un urlo: “Drizzalo!”, “Tienilo dritto!”

     Seguivano altri tre carri: il primo portava un’enorme tino, dei crateri e delle brocche, ornati di rami d’edera; gli altri, anfore di vino decorate.

     Chiudevano il corteo, un toro donato dagli efebi, numerosissimi buoi con le corna dorate e maschere frontali e molti altri animali, alcuni forniti dallo Stato, altri offerti da privati, condotti per essere sacrificati in onore di Dioniso nel recinto del suo teatro.

     La processione avrebbe sostato nella piazza del mercato (agorà), dove un coro si sarebbe esibito in canti e danze ai piedi delle statue dei Dodici Dèi, poi sarebbe proseguita fino al teatro, dove il simulacro (εἰϰών) del Dio veniva posto presso l’ara (ϴυμέλη) nell’orchestra, 65 in segno della sua presenza.

     Hermes decise che avrebbe atteso Melissia al rientro in casa. Intanto avrebbe fatto un volo verso l’Arcadia, sul monte Cillene, dove aveva avuto i natali.

     La grotta dove la ninfa Maia, unendosi in amore con Zeus, lo partorì era vuota e abbandonata, ma si commosse. Non vi era più tornato da quando sua madre, la maggiore e la più bella delle Pleiadi, come le sue sei sorelle, figlie di Atlante e Pleione, venne trasformata in una stella da Zeus per sottrarla alla gelosa moglie.

     Mentre si aggirava nella grotta, affioravano i ricordi: appena nato il mattino, sceso dalla sacra culla, varcata la soglia, si guardò intorno e trovò una tartaruga, col cui guscio, una pelle di bue, delle corde fatte di budella di pecora, due bracci e un ponticello, costruì la cetra; poi, desideroso di carne, non appena sopraggiunse l’oscurità, si precipitò nella Pieria, 66 dove pascolavano le vacche degli dèi custodite da Apollo dall’arco d’argento, e ne rubò cinquanta. Al ricordo di quell’impresa, Hermes sorrise.

      Quando Apollo, figlio della dea Leto, scoprì il furto e, grazie alla sua virtù profetica, l’autore, andò su tutte le furie e, a lunghi passi, arrivò al monte Cillene, alla grotta della ninfa, dove il piccolo furfante era tornato e si era nascosto nella culla; ne seguì un burrascoso litigio.

     Toccò al comune padre, Zeus, dopo una sonora risata, col ricorso alla sua bilancia della giustizia, risolvere l’ardua questione: Hermes ebbe l’intera mandria e gli furono attribuite diverse manzioni, tra cui quella di messaggero degli dèi; mentre Apollo ebbe in dono la cetra e fu gratificato dell’arte ermetica della musica. Così, dopo che Hermes si sottopose al solenne giuramento in nome dello Stige 67 di non rubare ad Apollo la cetra e l’arco, fu stabilita l’amicizia fra i due divini fratellastri.

 

                                         “Ne fu lieto il saggio Zeus,

                                          e li rese amici per sempre” 68

 

     Terminato il giro della grotta, Hermes pensò di andare a visitare il tempio che gli era stato dedicato in cima al monte, ma poi rinunciò.

     Ritornato ad Atene, al Ceramico, sul far della sera, Hermes si aggirava nei pressi della casa di Melissia, in attesa del suo ritorno. Dopo un po’, vide due persone entrare nella casa: erano i due schiavi della sua famiglia, marito e moglie, lui dava una mano al padre di Melissia, Teofilo, nei lavori del laboratorio di ceramica, mentre la donna aiutava nelle faccende di casa.

     Passata qualche ora, Melissia rincasò insieme ad un’amica; si salutarono, e vedendo Hermes: “Salve, Aristide, ti è piaciuta la Pompè?”

     “Molto bella, veramente splendida”.

     “Vedrai il teatro…” aggiunse Melissia: “Hai fatto bene ad aspettarmi, vieni, ho già parlato a mio padre di te, gli farà piacere conoscerti”.

     Si avviarono verso l’ingresso. La casa era a due piani, situata ad angolo tra due vie strette e tortuose, comunicante con l’esterno soltanto attraverso una porta; entrarono. Dal cortile prendevano luce quattro stanzette, due sul lato sinistro e due sul lato destro, che costituivano l’androceo, l’appartamento maschile e, in fondo, c’erano una specie di capannone che serviva da laboratorio e uno sgabuzzino. La prima stanza a sinistra serviva da cucina; la seconda era abitata dagli schiavi, dove si erano ritirati; mentre a destra, la prima era del fratello di Melissia, il quale, benché avesse avuto il permesso dalle operazioni di guerra per partecipare alle Dionisie, non era ancora arrivato, e dove, se voleva, Hermes avrebbe potuto pernottare; e nella seconda abitava il padre di Melissia che, essendosi sentito male il giorno prima, non aveva preso parte alla processione, e ora dormiva.

     Salirono la scala interna che portava al primo piano, dove due stanze costituivano il gineceo, l’appartamento delle donne: una era di Melissia; l’altra, non più abitata, dalla morte della madre. A fianco, c’era un terrazzo da cui si dominava gran parte della città. Ai due angoli  esterni c’erano due piante e sul muretto di cinta tanti vasi di fiori.

     Hermes espresse il desiderio di passare lì la notte e, poiché rifiutò la cena  dicendo che aveva già mangiato, Melissia gli preparò un giaciglio, poi andò giù.

     Hermes si distese con lo sguardo rivolto al cielo. E stava per addormentarsi, quando udì dei passi: era Melissia, venuta a dargli la buona notte.

     Il cielo era uno scintillar di stelle, l’aria profumava di primavera, e Hermes ne trascorse una quale nemmeno in Olimpo.

 

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Commenti più recenti

14.11 | 17:22

buonasera Beniamino, sono Rossana dell UNITRE, vorrei acquistare il suo libro in duplice copia, come mi devo regolare?Lei come sta? Scrive nuovi libri? SALUTI

13.12 | 17:28

bravo Beniamino, ammirevoli la costanza, la bravura, l'impegno nella stesura di queste opere, così complesse, con risultati veramente eccellenti