DELLA GUERRA DEL PELOPONNESO
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Ancora in Atene era viva l’euforia delle ultime Grandi Dionisie, “quando il grano era in fiore”,83 a seguito del rassicurante responso dell’oracolo di Delfi,84 secondo cui Lui stesso li avrebbe aiutati,

l’esercito spartano guidato dal re Archidamo II invase l’Attica: era la guerra, conosciuta come Guerra del Peloponneso e raccontata in gran parte, dall’inizio, dallo storico ateniese Tucidide.85

     In effetti, Pericle ritenendola ormai inevitabile aveva effettuato una serie di provocazioni contro Corinto e Mègara, alleate di Sparta, sino al punto di vietare ai Megaresi l’accesso ai porti di Atene.  

     In vista dell’invasione, Pericle fece ritirare tutta la popolazione dell’Attica e tutto l’esercito dentro le mura di Atene, limitandosi a difendere la città e il suo porto, convinto che la supremazia del mare avrebbe consentito una resistenza a oltranza.

     Le due poleis, Sparta e Atene, avevano sistemi di governo, strutture politiche, militari ed economiche profondamente diverse.

     Sparta, situata nella lontana valle dell’Eurota, era uno stato autosufficiente ad economia agricola a regime oligarchico; poteva contare sull’esercito più forte e temibile del mondo antico, mentre sui mari non era nulla. A sette anni ogni bambino lasciava la famiglia e affidato all’educazione pubblica: veniva inserito in un gruppo di coetanei guidato da un ragazzo più grande; imparava sì a leggere e a scrivere, musica e danza, ma lo scopo principale era addestrarlo nell’arte della guerra. Verso i vent’anni entrava a far parte dei soldati, e continuava il proprio addestramento fino a diventare un perfetto oplita.86 I neonati affetti da qualche imperfezione, inetti alla vita militare, venivano soppressi. La costituzione spartana si faceva risalire a Licurgo,87 che si sarebbe basato su un oracolo ricevuto da Delfi, quindi l’immutabilità dell’ordinamento spartano veniva fatta derivare dalla sacra volontà del dio Apollo.

     Atene sorgeva all’incrocio  delle vie che attraversavano la Grecia ed era un attivo centro commerciale e industriale; con la sua potente flotta, era padrona dei mari, e il suo porto, il Pireo, era uno dei più importanti del Mediterraneo. Era uno stato a regime democratico, e la città più bella e ricca dell’intero mondo Greco, considerata la capitale culturale. I genitori erano responsabili dell’educazione dei figli, riservando allo Stato il diritto di controllarla; accanto all’educazione fisica si curava molto quella intellettuale. Il primo legislatore fu Dracone88; il secondo fu Solone, uno dei sette savi.89

     Insomma, Sparta e Atene erano due poleis che non avrebbero potuto essere più diverse; entrambe aspiranti al dominio dell’intero mondo greco, era inevitabile che si scatenasse tra di loro il conflitto.

     A comandare la coalizione spartana Archidamo II, re di Sparta della casa reale degli Euripontidi,90 che succedette al nonno Leotichida,91 deposto ed esiliato dagli efori;92 quella ateniese da Pericle.

     Figlio di Santippo, un ufficiale che comandò la flotta nella vittoriosa battaglia di Micale93 guadagnandosi la carica di ammiraglio; e di Agariste, pronipote di Clistène, Pericle fu dotato di straordinarie qualità naturali. Intelligente e diligente, ebbe fin da piccolo un’educazione da “primo della classe”, seguito dai più grandi maestri di Atene, fra i quali Anassagora94 di Clezomene e Zenone95 di Elea. La compostezza della persona, la calma del portamento, il tono della voce pacata e armoniosa, gli valsero il soprannome di Olimpio e l’ammirazione dei più. Entrò giovanissimo in politica e ben presto raggiunse le più alte cariche, fino a quella di strategos autokrator.96 Era un aristocratico, ma d’idee democratiche, votato alla causa del popolo. Fece riforme epocali: introdusse la “cinquina” nell’esercito, in modo da assicurare alla famiglia del richiamato alle armi un sostentamento; e uno stipendio, sia pure di piccola entità, per le cariche pubbliche, come ai giurati nei tribunali; per questo provvedimento si attirò le critiche anche di Socrate. Estese la cittadinanza a molte categorie di persone, ma vietò la legittimazione dei figli procreati da uno straniero. E siccome la città era ormai attrezzata per la guerra, impiegò le sue larghe disponibilità in opere pubbliche, stimolando tutte le arti e i mestieri, occupando una grande massa di lavoratori. Propose pertanto grandi progetti e furono realizzati magnifici edifici e sontuosi templi e monumenti.

     Fortunato in politica, Pericle fu sfortunato in amore: già sposato e con due figli, Xantippo e Paralo, s’invaghì di una etèra,97 Aspasia, originaria di Mileto, dove aveva gestito una casa di malaffare. Donna intelligente, di qualità intellettuali e colta, ad Atene gestiva un centro culturale e lottava per l’emancipazione della donna, e fu lì che conobbe Pericle. Il “salotto” era frequentato dai più illustri personaggi: ci venivano Fidia, Euripide, Alcibiade, e lo stesso Socrate, di cui fu l’amante. Pericle ripudiò la moglie e convisse con Aspasia, la quale gli diede un figlio, Pericle il Giovane che, ironia della sorte, non poté legittimare, proprio per una sua precedente legge. Parte del popolo ateniese non gradì che la “prima donna di Atene” fosse una ex cortigiana e che l’autokrator la facesse partecipe della pubblica amministrazione e cominciò ad avversarlo.

     Invasa l’Attica, gli Spartani devastando il paese avanzarono fino al demo di Acarne, dove si accamparono, convinti che gli Ateniesi avrebbero reagito e sarebbero usciti a combattere; ma a Pericle sembrò rischioso affrontare quel grande esercito di opliti; cercò quindi di dissuadere quelli che in città erano favorevoli all’intervento. Resistendo agli insulti e alle ingiurie di codardia, Pericle non mutò idea. Per placare gli animi , cacciò dall’isola di Egina tutti gli abitanti e ne spartì il territorio tra cittadini ateniesi; inoltre assegnò delle cleruchie.98 Intanto inviò una flotta di cento navi contro il Peloponneso, ma non ne prese parte, preferendo vigilare la città. La flotta devastò ampi spazi del territorio e molti villaggi; lo stesso Pericle invase la megaride99 con forze di terra, e la mise a ferro e fuoco. Il bottino da dividere al popolo fu consistente.

     “Nello stesso inverno gli Ateniesi, secondo le usanze patrie, seppellirono a spese pubbliche i primi caduti di questa guerra…”100 Era una tradizione che risaliva alla prima guerra persiana e che poiera stata trasformata in legge da Solone. Per essa ogni anno si organizzava una solenne e pubblica cerimonia funebre (ἐᴨιτάϕιον), in onore di coloro che nel corso dell’anno erano morti per la patria. Al momento della sepoltura, nel cimitero del Ceramico, un oratore, designato su proposta del Consiglio, pronunciava un’orazione celebrativa. Per questi primi caduti, benché in parte “giubilato” anche a causa del processo di empietà contro Aspasia e il cui bersaglio era lui, fu scelto a parlare lo stesso Pericle. Dopo che le bare furono seppellite sotto terra, tra le quali quella di Timoteo, figlio di Teofilo, Pericle salito sopra un’alta tribuna, cominciò a parlare.

     Intanto Teofilo e sua figlia Melissia, usciti di casa, si avviarono verso il vicino cimitero. Quando vi giunsero, Pericle aveva terminato l’introduzione del suo discorso, e così proseguì:

     “Inizierò per pima cosa dai nostri antenati: è giusto, infatti, e conveniente che in questa occasione venga offerto loro l’onore della prima menzione. Costoro, infatti, abitando questa terra senza interruzioni di generazione in generazione, la tramandarono libera fino ai nostri giorni grazie al loro valore. E se i nostri antenati sono degni di lode, ancor più lo sono i nostri padri: i quali, non senza fatica si conquistarono quell’impero che ora è nostro a partire da quanto era stato lasciato loro, e così grande lo lasciarono a noi. Ma l’ampliamento dell’impero stesso è opera nostra, di tutti quanti noi che siamo nel pieno della maturità, e a beneficio di tutti abbiamo ingrandito la nostra città rendendola pienamente autosufficiente per la pace e per la guerra. Le imprese in guerra, con le quali furono conquistati a uno a uno questi vantaggi, o le occasioni in cui noi stessi o i nostri padri respingemmo valorosamente il barbaro o il greco che ci assaliva, le tralascio, perché non voglio dilungarmi con persone che ben le conosce; ma in virtù di quali principi noi siamo giunti a questo impero, e con quale costituzione e con quali costumi tale impero si è ingrandito, questo mi accingo a mostrare per primo, e quindi a lodare costoro, poiché ritengo che in quest’occasione non sia sconveniente dire tali cose, ed è utile che questa folla di cittadini e di stranieri lo ascolti.

 

     “Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, anzi siamo noi d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica dell’amministrazione dello Stato, ciascuno è preferito secondo quanto si distingue in qualche campo, non per la provenienza da una classe sociale più che per il suo valore, né la povertà, se uno può fare qualcosa di buono per la città, è d’ostacolo a causa dell’oscuritò del rango.

 

     “Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti privati e nella vita pubblica la reverenza ci impedisce di violare le leggi, in obbedienza a coloro che reggono il potere, e alle istituzioni poste a tutela di chi subisce ingiustizia, e a quelle che, pur non scritte, portano a chi le infrange unanime disonore di fronte alla comunità-

 

     “E abbiamo dato al nostro spirito moltissimo sollievo dalle fatiche, istituendo agoni e feste per tutto l’anno, e avendo belle suppellettili nelle nostre case, dalle quali giornalmente  deriva il diletto con cui schiacciamo il dolore. Grazie all’influenza della città ogni genere di mercanzia giunge da ogni terra, e avviene che noi godiamo dei beni degli altri popoli con non minor piacere che dei beni di qui.

(……………….)

     “Amiamo il bello, ma con compostezza e il sapere senza debolezza; adoperiamo la ricchezza più per possibilità di agire che come vanto nei discorsi, e la povertà non è vergogna ad ammettersi per nessuno, mentre lo è assai più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme a quello degli affari privati, e se anche ci dedichiamo alle proprie imprese, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici. Siamo soli, infatti, a considerare non già ozioso, ma inutile chi non se ne interessa. (………………)

(……………….)

     “Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola dell’Ellade. (…………) Noi spieghiamo a tutti la nostra potenza con importanti testimonianze e molte prove, e saremo ammirati dai  contemporanei come dai posteri, (…………..) costruendo ovunque, assieme alle nostre colonie, monumenti eterni delle nostre sconfitte e delle nostre vittorie. Per una tale città costoro sono caduti combattendo nobilmente, ritenendo ingiusto esserne privati, e ciascuno dei sopravvissuti è giusto che sia pronto a soccombere per lei.

 

(……………….) “La maggior parte di questo elogio è già stata pronunciata: le gloriose imprese di questi uomini hanno abbellito la città con quella gloria che io le ho attribuito nel mio discorso, e non sono molti i Greci il cui elogio potrebbe essere equivalente ai fatti, come quello di costoro.

(……………….) E in questa impresa, preferendo difendersi e soffrire piuttosto che salvarsi con la resa, evitarono il biasimo nei discorsi, e affrontarono il loro compito a prezzo della vita e, in un brevissimo momento segnato dal destino, perirono nel colmo della gloria piuttosto che del timore.

 

     “Tali si mostrarono  costoro, in modo degno della città. (…………..) Offrendo la loro vita alla comunità, conquistarono per sé una lode che non invecchia e una tomba che è la più illustre, non là dove sono sepolti, ma là dove la gloria rimane inobliabile ogni volta si presenti l’occasione di parlare o di agire. Tomba degli uomini illustri siffatti è tutta la terra, e non li ricorda soltanto l’epigrafe di una stele nel proprio paese, ma anche in terra straniera vive, non scritto, presso ciascuno il ricordo, affidato alla mente umana e non alle cose. (………….)

 

     “Perciò più che compiangere, io consolo i genitori dei caduti qui presenti. (…………) So bene che è difficile persuadervi, dato che di costoro avrete spesso il ricordo osservando la felicità altrui, della quale un tempo anche voi andavate superbi. Ma dovete farvi forza, anche nella speranza di altri figli per coloro che sono in età di procrearli. Voi invece che avete passato l’età di avere figli, considerate un dono quel periodo della vostra vita in cui siete stati felici, (………….) e rallegratevi della gloria che vi deriva da questi morti.

 

(………………) “Se poi debbo accennare anche alla virtù delle donne che ora saranno vedove, la indicherò tutta con una breve esortazione. Grande vanto per voi il non essere più deboli di quanto comporta la vostra natura, e sarà una gloria se di voi si parlerà pochissimo tra gli uomini, tanto in lode quanto in biasimo.

 

     “Anch’io ho dunque parlato, secondo la consuetudine, di ciò che ritenevo utile e, passando ai fatti, gli onori per la sepoltura sono già pronti, e d’ora in poi la città alleverà a spese pubbliche i figli dei caduti fino alla giovinezza offrendo per una prova così grande una corona utile a costoro e ai sopravvissuti. Quello Stato che offre i premi più grandi al valore avrà sempre dei cittadini migliori. Ora, dopo aver pianto ciascuno il proprio morto, tornate alle vostre case”.

 

 

 

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Commenti più recenti

14.11 | 17:22

buonasera Beniamino, sono Rossana dell UNITRE, vorrei acquistare il suo libro in duplice copia, come mi devo regolare?Lei come sta? Scrive nuovi libri? SALUTI

13.12 | 17:28

bravo Beniamino, ammirevoli la costanza, la bravura, l'impegno nella stesura di queste opere, così complesse, con risultati veramente eccellenti