LA SPEDIZIONE IN SICILIA (415 a.C.)
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I preparativi

 

     A seguito della richiesta di aiuti di Segesta e Leontini, città greche di Sicilia, che rifiutavano di sottostare all’egemonia di Siracusa, Atene deliberò d’intervenire con una spedizione militare. Il vero motivo era che gli Ateniesi desideravano dominare tutta la Sicilia; compivano un’altra azione imperialistica.

     Le forze messe in campo erano superiori a quelle inviate con Lachete nella prima spedizione;117 i Segestani da parte loro promisero che avrebbero fornito il denaro necessario alla guerra. Il comando della flotta di centotrentaquattro triremi fu affidato a tre strateghi: Nicia, Alcibiade e Lamaco.

     Nicia, figlio di Nicerato, apparteneva a una ricca famiglia ateniese; gran parte del suo patrimonio era impegnato in schiavi, ch’egli affittava ai gestori delle miniere d’argento del Lario. Colto, moderato, prudente, membro del partito aristocratico, divenne stratego con l’appoggio dei ricchi e degli aristocratici, che lo contrapposero a Cleone. Era molto devoto: non apriva bocca né per parlare né per mangiare se non avesse prima fatto un sacrificio a qualche dio; e, non intraprendeva alcunché prima di consultare qualche indovino, qualcuno lo teneva in casa; la sua superstizione era nota a tutti. Per accattivarsi la benevolenza del popolo, era prodigo nell’allestimento di spettacoli e nelle liturgie.118 Per tenere a bada questuanti, malfattori e sicofanti, elargiva mance a tutti. Per non attirarsi l’invidia per i suoi successi militari, tra cui la conquista dell’isola di Minoa e l’isola di Citera, preferiva attribuirli alla buona sorte e all’intervento divino.

     Alcibiade è il più controverso e inquietante personaggio della storia greca; un personaggio, si direbbe, con più anime. Figlio di Clinia, della famiglia degli Eupatridi,119 che secondo la tradizione risaliva all’eroe Aiace, una delle più ricche e potenti di Atene, e di Dinomache, della stirpe degli Alcmenodi,120alla morte del padre, quando aveva circa quattro anni, divenne tutore il suo parente Pericle. Particolarmente dotato, ebbe un’ottima istruzione: imparò l’arte della retorica dai sofisti121 amici di Pericle e frequentò a lungo Socrate, verso il quale, contrariamente a quanti lo corteggiavano e l’adulavano, nutriva rispetto e timore. Bello e affascinante, con una grande prestanza fisica, ma dal carattere incostante, dotato di un’eccezionale eloquenza, prevalevano in lui l’ambizione, la voglia di primeggiare e il desiderio di gloria; era incline ai piaceri, alla sregolatezza e all’intrigo, a volte violento.

     La bravata del pugno dato a Ipponico,122 padre di Callia, un uomo ricco e di nobile stirpe, per una scommessa fatta con gli amici, fece il giro della Città; poi, pentito, si presentò alla sua casa, invitandolo a punirlo a colpi di sferza. Ipponico non solo lo perdonò, ma gli diede in sposa la figlia Ipparete, dalla quale ebbe due figli, ma con la quale, a causa delle sue frequentazioni con etere, una vita maritale tormentata.

     Alcibiade entrò giovanissimo in politica nel partito democratico popolare, e si distinse subito tra gli altri capi, ma dovette misurarsi con Nicia, meno giovane di lui e riconosciuto come ottimo generale. Prese parte insieme a Socrate alle battaglie di Potidea e Delio, ed entrambi si distinsero per valore. Nella prima battaglia, Alcibiade caduto ferito fu salvato dal filosofo; mentre nella seconda, con gli Ateniesi in rotta, fu Alcibiade a difendere Socrate.

 

     “Se hai intenzione di occuparti della Città in modo retto e bene”, lo ammaestrava Socrate in un dialogo, “devi rendere partecipi i cittadini della virtù”.

     E Alcibiade: “Come no?”

     “Però”, continuava Socrate, “uno potrebbe rendere partecipi altri di ciò che non ha?”

    “E come?”

    “Perciò, tu devi , innanzi tutto, acquistare la virtù, e questo deve fare chiunque voglia governare e curarsi, non solo di sé e di ciò che gli è peculiare, ma anche della Città e delle funzioni pubbliche”.

     “Dici il vero”.

     “Non devi, allora, procurare a te stesso e alla Città né la libertà, né il potere di fare ciò che ti piace, bensì giustizia e temperanza”.123

 

     Come capitano della spedizione di Sicilia fu scelto Nicia, il quale era contrario a tale impresa ritenendola troppo dispendiosa e piena d’incognite; e, nell’intento di dissuadere gli Ateniesi della loro decisione, così li esortò:

 

     “Questa assemblea è stata convocata per dibattere sull’entità degli armamenti e le modalità per questa spedizione in Sicilia; ma a mio parere è indispensabile riesaminare la questione, cioè se il miglior partito è impegnare la nostra flotta in una guerra che non ci riguarda. (…)124

 

     (…) “Uno dovrà badare a non voler esporre una Città che è già in alto mare e aspirare a un altro dominio prima di aver consolidato quello che abbiamo. (…)125

 

     (…) “E dovete rammentarvi che è da poco che ci siamo risollevati da una grande pestilenza e da una guerra, così da crescere nei nostri beni e nella nostra popolazione. (…) E se qualcuno, contento di essere stato scelto a comandare (essendo purtroppo giovane), vi esorta a partire badando al proprio tornaconto e per farsi bello per l’allevamento dei suoi cavalli, non permettete a costui di trarre qualche vantaggio nella carica a costo di un pericolo per la Città. (…)126

 

     “E tu, o pritano,127 se ritieni tuo dovere aver cura della Città e mostrarti buon cittadino, sottoponi alla discussione e ai voti degli Ateniesi la mia proposta. (…)128

 

     Queste furono, tra le altre, le parole di Nicia. Ma tra gli Ateniesi saliti sul palco la maggior parte incoraggiarono a fare la spedizione; tra questi il più accalorato Alcibiade, smanioso del comando e speranzoso di conquistare la Sicilia, con conseguenti vantaggi in denaro e in fama. Fattosi largo sul palco, rivoltosi agli Ateniesi così li esortò:

 

     “Spetta a me, Ateniesi, il comando, più che a ogni altro (è necessario che cominci da questo punto, poiché Nicia mi ha attaccato), e nello stesso tempo me ne considero degno. Quello per cui sono malfamato, ai miei antenati e a me aggiungono prestigio, e alla patria porta vantaggio. Abbagliai i Greci, grazie allo splendore della mia delegazione a Olimpia: sette carri, infatti misi in gara, tanti quanti nessun cittadino privato in passato, e conquistai il primo il secondo  e il quarto posto,129 e con la magnificenza della cerimonia per la vittoria si diffuse l’immagine di un’Atene trionfante. E quello sfarzo con cui mi mostro in Città mediante coregie, se suscita l’invidia dei cittadini, di fronte agli stranieri suggerisce una prova di forza. (…) Ho spinto le più grandi città del Peloponneso a farsi guerra tra di loro senza pericolo o spesa per voi, e ho condotto Sparta a porre se stessa in repentaglio nella sola giornata di Mantinea,130 e se da questo fatto sono tornati vincitori, pure da allora non hanno ripreso coraggio.131

 

     “E fu questa mia giovinezza e la mia pazzia, considerata innaturale fanatismo, a indurmi a trattare con discorsi giusti con le potenze del Peloponneso e a persuaderle sul nuovo corso politico. Non dovete temerla, ora, questa pazzia, ma mentre insieme alla mia giovinezza sono al culmine delle mie forze e Nicia sembra favorito dalla fortuna, approfittate del vantaggio che viene da entrambi. E non mutate avviso sulla spedizione in Sicilia, come se fosse una grande potenza. (…) I nostri padri, pur avendo contro questi stessi nemici che ora si va dicendo che trascuriamo salpando, e avendo in più la minaccia dei Persiani, si conquistarono questo impero ponendo la loro forza soltanto nella superiorità della loro flotta. E i Peloponnesi mai più di ora hanno perso la speranza di vincerci; e, se sono ancora fiduciosi d’invaderci, comunque anche partendo non potrebbero danneggiarci con la flotta, perché ce ne resterebbe una pari alla loro.132

 

     Gli Ateniesi, udito Alcibiade  e i Segestani presenti, i quali ricordavano i giuramenti dei trattati, furono vogliosi più di prima di fare questa spedizione. E Nicia, accortosi che non avrebbe potuto distoglierli con gli stessi argomenti, tentò dissuaderli elencando una smisurata mole di preparativi necessari; ma quelli rimasero ugualmente desiderosi di partire. E se qualcuno non era d’accordo, se ne stava in silenzio, temendo d’essere giudicato male verso la Città, se avesse dato voto contrario.

     A questo punto, gli Ateniesi decretarono che gli stratego avessero pieni poteri; e, riguardo agli armamenti e al numero dei soldati , decidessero come a loro sembrava meglio per Atene.

     Ma la spedizione fu preceduta da un nefasto presagio, che per Nicia fu un colpo: mentre fervevano i preparativi per la partenza, una notte, furono per la maggior parte mutilate le Erme di pietra collocate ai crocevia delle strade e nei luoghi sacri di Atene, raffiguranti la testa e il fallo del dio Hermes.

     Cominciò la caccia agli autori dell’atto sacrilego; si parlò di una provocazione, di un complotto, addirittura di una congiura per scatenare una guerra civile e abbattere la democrazia.

     Alla fine fu accusato Alcibiade: era nota la sua irriverenza verso gli dèi e le cose sacre; in più qualcuno riferì di averlo visto a tarda sera, ubriaco, fare un gran baccano con i suoi amici all’uscita di un simposio133 e di aver parodiato i misteri di Eleusi. Alcibiade chiese di essere giudicato prima di partire: “Se avesse fatto qualcosa, sarebbe stato condannato; se fosse stato assolto, avrebbe ripreso il comando”.

     Ma i preparativi erano stati completati, e gli fu ordinato di salpare. E lo scandalo delle Erme rimase avvolto nel mistero.

     Solo Zeus e lo stesso Hermes conobbero la verità.

 

    

 

    

                     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Commenti più recenti

14.11 | 17:22

buonasera Beniamino, sono Rossana dell UNITRE, vorrei acquistare il suo libro in duplice copia, come mi devo regolare?Lei come sta? Scrive nuovi libri? SALUTI

13.12 | 17:28

bravo Beniamino, ammirevoli la costanza, la bravura, l'impegno nella stesura di queste opere, così complesse, con risultati veramente eccellenti