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Dopo che Atene aveva rifiutato l’offerta
di pace di Sparta, si fronteggiavano, dunque, le due flotte: quella ateniese finanziata in parte
con la fusione delle statue d’oro e d’argento delle divinità prima della
battaglia delle Arginuse, e quella spartana ricostruita col finanziamento di
Ciro, figlio di Dario II re di Persia, il quale si era dichiarato “disposto a
fare a pezzi, per farne monete, anche il trono su cui sedeva, che era d’oro e
d’argento”.184
Alcibiade, vedendo dalle mura della sua postazione
che gli Ateniesi erano ormeggiati ad Egospotami 185 lontani da ogni città e con difficoltà di rifornimenti, mentre i
nemici erano all’ancora nel porto di Lampsaco, in una posizione favorevole, si
portò a cavallo nel campo amico ed espresse il suo parere, ma i suoi
suggerimenti non furono accolti, anzi gli strateghi Tideo e Menandro
gl’ingiunsero di allontanarsi, e se ne andò.
Gli Ateniesi, ch’erano privi di
rifornimenti, tentarono di venire subito a battaglia e provocavano
inutilmente Lisandro; il quale, il giorno seguente,
ordinò ai comandanti delle sue navi più veloci di curare gli Ateniesi e di
riferirgli le loro mosse. Al ritorno, gli raccontarono che i nemici erano scesi
a terra e si erano dispersi nel Chersoneso. La cosa si ripeté per quattro
giorni di seguito; e, dato che Lisandro non attaccava, “subentrò negli Ateniesi
una grande presunzione unita al disprezzo, perché credevano che i nemici
fossero in preda della paura e dello scoraggiamento”. 186
Al quinto giorno, dopo la solita
incursione e provocazione degli Ateniesi e la ritirata, Lisandro ordinò ai
comandanti delle navi di ricognizione di spiare il momento dello sbarco dei
nemici, quindi di fare immediatamente ritorno e, a metà traversata, innalzare
uno scudo. Al segnale convenuto, Lisandro con uno squillo di tromba fece
salpare le navi, le quali si lanciarono all’assalto, mentre la Conone e le
sette uniche al completo insieme alla Parolos 187 presero il largo, mentre i Peloponnesiaci piombati sul resto della
flotta, tra grida e schiamazzi, in parte affondarono e in e laparte catturarono. Molti uomini furono
massacrati nelle navi e sulla terraferma.
Dopo aver saccheggiato l’accampamento e
preso alcune navi a rimorchio con i prigionieri, Lisandro “salpò alla volta
di Lampsaco al suono degli auli e al canto dei peani, avendo compiuto
un’impresa di grandissima importanza con pochissima fatica e avendo posto fine,
in un’ora soltanto, a una guerra che fu la più lunga, la più varia per sciagure
e la più incredibile per eventi fra tutte quelle precedenti. Infatti questa
guerra, che aveva alternato infinite forme di lotta e ribaltamenti della
situazione e che aveva fatto perire così tanti condottieri quanti non ne
avevano fatto morire neppure tutte quante le guerre precedenti in Grecia, era
stata condotta a termine dall’abilità e dalla scaltrezza di un unico uomo:
Perciò alcuni arrivarono a pensare che questa impresa fosse un’opera divina”.188
Fu la più grande tragedia greca; peccato
che i Grandi Tragici erano morti e non poterono descriverla.
Da Lampsaco, Lisandro inviò Teopompo di
Mileto a Sparta, per riferire del trionfo. Conone con otto navi si recò a
Cipro, dal re Evagora, mentre la Paralos fece vela per Atene per comunicare la
disfatta.
Lisandro tenne sotto stretta sorveglianza
gli strateghi, soprattutto Filocle, il quale aveva proposto di tagliare ai
prigionieri il pollice destro perché non potessero più impugnare una lancia; in
seguito convocò il consiglio degli alleati, che decretò la condanna a morte dei
tremila Ateniesi che erano stati presi prigionieri. Filocle fu il primo ad
avviarsi all’esecuzione, e fu sgozzato.
“La Paralos giunse di notte e subito in
Atene si diffuse la notizia del disastro. Un lamento corse dal Pireo,
attraverso le Lunghe Mura, fino alla città, dove gli abitanti si passavano la
notizia l’un l’altro. Quella notte nessuno dormì; tutti piangevano non solo i
caduti, ma, ancor più, se stessi, prevedendo di dover subire la sorte che gli
Ateniesi avevano inflitto agli abitanti di Melo, coloni spartani, quando li
assoggettarono dopo un lungo assedio e, ancora, gli abitanti di Istiea, di
Scione, di Torone, di Egina e a molte altre popolazioni della Grecia”.189
Molti ricordavano qualche frase
particolarmente arrogante del dialogo tra gli Ateniesi e i Meli nel corso delle
trattative che precedettero l’assedio.
Meli: “(…) Se, come è naturale, noi avremo
la meglio in difesa della giustizia e perciò non cederemo, ci porterà la
guerra, mentre se saremo persuasi ci porterà la schiavitù”.190
Ateniesi: “(…) Nelle considerazioni umane si tiene conto
della giustizia quando è uguale la necessità per le due parti, mentre chi è più
forte esercita il proprio potere e chi è più debole cede”.191
E ricordavano soprattutto la brutale
invasione degli Ateniesi dopo che l’isola, stretta da assedio, fu costretta
alla resa: tutti i maschi adulti furono uccisi e resi schiavi le donne e i
bambini.
Lisandro, dopo aver conquistato tutto
l'Ellesponto ateniese, rimandando ad Atene tutti gli Ateniesi per accrescere le
bocche da sfamare, e lasciando in ogni città un armostata spartano, si unì in
Attica ai re Agide e Pausania 192 con l'intenzione
di conquistare Atene, la quale però oppose resistenza, allora ritornò in Asia;
ma quando seppe che Atene, per la fame, era prossima alla capitolazione, salpò
per il Pireo.
Dopo mesi d'inutili trattative,
ambasciatore Teramene; e, con i Corinzi e Tebani che l'avrebbero volentieri
rasa al suolo e ridotti in schiavitù gli Ateniesi, se gli Spartani non si
fossero opposti perché una città greca "che tanto aveva fatto nei momenti
di più grave pericolo per la Grecia" 193 non si poteva distruggere; e, assediata per
terra e per mare, quel mare di cui era stata regina, Atene fu costretta alla
resa. Le conseguenze furono gravissime: "Distruzione delle Lunghe Mura e
di quelle del Pireo, consegna della flotta, tranne dodici navi, rientro degli
esuli, accettazione degli stessi amici e nemici degli Spartani, seguendoli per
mare e per terra dovunque li conducessero". 194
"Le Mura furono demolite al suono
delle flautiste persiane, in mezzo a un grande entusiasmo, perché erano in
molti a pensare che quel giorno segnava l'inizio della libertà per la
Grecia". 195
Correva l'anno della 94ma Olimpiade, primavera del 404 a.C.
Ma la festa non durò a lungo. Sparta si
dimostrò inadeguata nel ruolo di potenza egemone, tanto da far rimpiangere ben
presto l’imperialismo ateniese.
L’oligarchia sostenuta dagli spartani instaurò
ad Atene l’odioso regime dei Trenta Tiranni, 196 guidati da
Crizia, 197 che intraprese una politica di repressione degli
avversari politici e dei meteci 198 più
facoltosi al solo scopo di confiscarne i beni. Teramene, che pure faceva parte
dei Trenta, ma si oppose al governo sanguinario, fu costretto al suicidio.
Intanto Alcibiade fu assassinato da sicari persiani. Conone, dopo alcune
imprese, finì i suoi giorni a Cipro.
Nel primo anno del nuovo secolo, Atene si
liberò anche della sua cattiva coscienza: processato, costretto a bere la
cicuta, fu ucciso Socrate. Il più grande degli Ateniesi aveva rifiutato
obbedienza ai Trenta e si era opposto al malgoverno di Crizia, ma l’accusa non
era di carattere politico, bensì religioso. L’imputazione era di empietà:
“Socrate è colpevole, in quanto corrompe i giovani, e non crede negli dèi in
cui crede la Città, ma in divinità diverse e nuove”.199 Ad accusarlo un certo Meleto.200
Figlio di un modesto scultore, seguì per
un po’ il mestiere del padre, ma si sentiva più somigliante alla madre, ch’era
stata levatrice. “Perché”, diceva, “anch’io aiuto gli altri a partorire: non
figli, ma idee”.201 Ma le
idee, specialmente se originali e scomode, fanno nascere il sospetto e il
desiderio di sopprimerne l’autore. Passò gran parte della vita a fare ricerche,
“Perché”, diceva, “una vita senza ricerche non è degna di essere vissuta”, e a
punzecchiare i suoi concittadini, nel tentativo di farli pensare, di misurarsi,
di renderli migliori.
“Io vado intorno facendo nient’altro se
non cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi
dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di nessun’altra cosa prima e con
maggiore impegno che dell’anima in modo che diventi buona il più possibile,
sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dala virtù stessa
nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in
pubblico”.202
Inutile fu la sua apologia, che concluse:
“Ma è ormai venuta l’ora di andare: io a morire , e voi, invece, a vivere. Ma
chi di noi vada verso ciò che è meglio, è oscuro a tutti, tranne che al dio”.203
Settantenne, circondato da molti amici e discepoli in lacrime, sereno,
morì l’uomo ritenuto il più sapiente e giusto. Morì senza lasciarci un rigo;
per nostra fortuna, ci pensò il suo discepolo Platone204 a tramandarci oltre il tesoro del
proprio pensiero anche quello di Socrate.
Gli Ateniesi, pentitisi dopo la sua morti, condannarono Meleto alla
stessa sorte, e onorarono la memoria del Maestro con una statua di bronzo opera
dello scultore Lisippo.205
Dopo Sparta, anche Tebe, grazie a Epaminonda 206 e Pelopida,207 ebbe un
momento di gloria, un’effimera egemonia.
Ma nessuna delle tre città-stato (Atene, Sparta, Tebe), in lotta tra
loro, riuscì a imporre la propria supremazia e unificare la Grecia; anzi, ebbe
inizio la dissoluzione della polis e della cultura che l’aveva caratterizzata.
Isocrate,208 fino a
tarda età, sperò fermamente che Atene potesse risorgere; deluso, si lasciò
morire d’inedia.
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