MARMELLON DELLA VETTA
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     Appariva quasi tutte le sere, dopo il tramonto, all’imbrunire, e si adagiava lì, sopra il cocuzzolo dell’alta montagna. Lo chiamavano Marmellon perché a volte assumeva l’aspetto d’un’enorme marmellata versata sull’inaccessibile vetta, e colava un po’ sul fianco. Effettivamente, nessuno sapeva di cosa si trattasse e nessuno osava avventurarsi fin lassù. I più sostenevano trattarsi di un mantello di nubi, che a sera si distendeva sulla vetta; altri, forse volutamente, propendevano per qualcosa di strano e misterioso. A volte, improvvisamente cambiava aspetto, si rabbuiava, diventava violento.

     “Lo vedi?” si chiedevano l’un l’altro, a volte, in paese. “Sì, è lui. Dev’essere lui, anche se questa sera ha l’aspetto un po’ diverso. E’ malefico! No, è benefico, e di lassù ci protegge! Forse non ci odia e non ci ama, è solo indifferente. E’ malefico, è malefico!”.

     A sostegno della tesi del ‘malefico’, c’era una serie di fatti tragici che si erano verificati sulla montagna: molti vi avevano perduto la vita, precipitando fra i burroni; qualcuno fu schiantato dal fulmine; qualche valanga aveva investito e seppellito case e persone. E più d’una volta, la montagna tremò tutta con conseguenze funeste. Ma la montagna offriva anche dei benefici: la possibilità di allevare il bestiame; l’utilizzo dei boschi; la facoltà di fare escursioni; e sciare, sciare, sciare …

     Se solo non ci fosse Marmellon, se li lasciasse in pace!... Non mancarono i tentativi di propiziarselo: furono fatte delle processioni lungo i sentieri, sino ad una certa altezza; furono sacrificati degli animali; offerti dei doni; ma inutilmente. L’ultimo tentativo fu di far salire molto in alto una fanciulla vergine, tutta vestita di bianco, ma anche quella volta senza costrutto; l’unico risultato tangibile fu che la ragazza rimase incinta. Ormai si guardavano bene dallo sfidarlo, o solo tentarlo.

     Arrivò, un sabato mattina, in paese un giovane forestiero, per trascorrervi il fine settimana, e inevitabilmente sentì parlare di Marmellon. E già da quella prima sera, anzi dal tardo pomeriggio, gli fu possibile vedere quella strana figura acquattata sulla vetta. Rimase subito incuriosito e affascinato. Ne parlò a lungo, in piazzetta, con un gruppo di paesani; e, nonostante lo sconsigliassero, alla fine decise: l’indomani avrebbe scalato la montagna, sin dove sarebbe riuscito, per vedere più da vicino Marmellon.

     “E’ pericoloso”, continuavano a ripetere i paesani: “meglio stargli lontano. Ogni volta che qualcuno ha osato avvicinarglisi, è successo qualche disgrazia”.

     “Salirò solo a mezz’altezza”, disse il forestiero.

     “Non è facile, poi,  resistergli”.

     “Ho deciso”.

     “E’ arrivato Rasputin!” disse, con una risata, uno del gruppo, senza riferimento al monaco russo, intendendo solo dire uno che non bada al pericolo. E, da quel momento, continuarono a chiamarlo Rasputin. E visto ch’era irremovibile, si offrirono d’accompagnarlo sino alla falda della montagna.

     Rasputin ne parlò ancora al ristorante dell’albergo con altri avventori; poi si ritirò nella sua camera; si mise a letto, sempre col pensiero rivolto a Marmellon, e finì col sognarlo.

     Il giorno seguente, di buon’ora, equipaggiato di tutto punto, i lunghi capelli neri raccolti a codino, che fuoriusciva dal berretto dalla lunga visiera, il telefonino appeso alla cintura, prestante e altero, Rasputin uscì dall’albergo, e vi trovò davanti ad attenderlo la comitiva di paesani con cui aveva fissato l’appuntamento. Nel vederlo, accennarono un battito di mani; lui rispose con un sorriso.

     “Sei proprio deciso, Rasputin?”.

     “Certo, andiamo”.

     Attraversarono il paese; imboccarono una stradetta, e dopo un po’ arrivarono ai piedi della montagna. Era maestosa; presentava una gobba massiccia e tondeggiante; nel lato destro, era attraversata da una valle dai versanti piuttosto ripidi. Un sentiero scosceso partiva dalla base e si vedeva serpeggiare in alto, in tornanti, lungo il pendio; vi s’inoltrarono.

     La giornata si presentava bella; il sole non era ancora spuntato, ma  già le cime erano tinte di rosa; e i prati brillavano di rugiada e sembravano ondeggiare. L’aria era frizzante e profumata. Era primavera avanzata, non più tempo di sci, eppure la falda, qua e là punteggiata di casolari,  brulicava di gente. Il mantello vegetale era abbondante e rigoglioso; in alto, c’era un fitto bosco di querce, castagni e faggi.

     “Com’è che sei venuto qui?” chiese uno della comitiva a Rasputin.

     “Così, per caso, volevo trascorrere un fine settimana tranquillo”.

     “Tranquillo …”, rise ironico quello: “e ti affidi a Marmellon!”.

     “Magari godrà delle sue grazie”, rise un altro.

     “O non si farà vedere”, disse il terzo.

     Attraversarono un tratto di bosco devastato dal fuoco e dalla furia umana; tanto da far pensare che, se Marmellon fosse lo spirito della montagna, non aveva poi tutt’i torti a vendicarsi di tanto in tanto.

     I paesani erano sul punto di congedarsi da Rasputin per far ritorno al paese, quando s’udì un suono di fisarmonica.

     “Fanno festa alla ‘Vecchia Quercia’”, disse uno.

     “Già, oggi è domenica”, disse un altro.

     “Andiamo?”.

     “Andiamo”.

     E gli amici decisero di arrivare alla trattoria della Vecchia Quercia per passarvi la giornata.

     “Costine di maiale cotte alla ‘pieta’ e vino a volontà, Rasputin, e poi a ballare, altro che Marmellon!”.

     Vi giunsero qualche ora prima di mezzogiorno. Era un locale rustico. Sotto un pergolato, alcuni giovani erano seduti su due panche di legno attorno ad un tavolaccio: uno suonava la fisarmonica; gli altri battevano la cadenza, chi con i piedi chi con le mani. Appesa alla parete vicino all’ingresso, tra le piante, pendeva una chitarra, in attesa che qualcuno l’imbracciasse; ma già le corde sembrava che vibrassero, forse perché qualche bischero era allentato. All’interno del locale, alcune ragazze erano indaffarate a preparare i tavoli; il camino fumava.

     Uscì l’oste e salutò amichevolmente i nuovi arrivati; poi chiese: “Vi fermate?”.

     “Sì”.

     “Un tavolo per quattro, Rosetta”, disse l’oste rivolto ad una delle ragazze.

     “Per tre”, lo corresse uno del gruppo; e indicando Rasputin: “lui è sulla strada per Marmellon”.

     L’oste scoppiò in una risata: “Ah, Marmellon!”. Anche gli altri risero.

     “Beve almeno un bicchiere”, soggiunse l’oste.

     Rasputin accettò; poi, benché avesse delle provviste nello zainetto, si fece preparare due panini, e salutò.

     “Torna presto, ti aspettiamo”, gli disse uno dei compagni.

     Rasputin riprese la salita di buon passo; ogni tanto, dove poteva, lanciava uno sguardo alla vetta. Di tanto in tanto, incontrava qualche persona o scorgeva il volo di qualche grosso uccello. A tratti si fermava per riprendere fiato, allora si voltava per ammirare il panorama, e ascoltava lo scroscio del torrente che giungeva dalla valle.

     Squillò il telefonino: erano i compagni dalla trattoria: “Tutto O.K., Rasputin?”.

     “Tutto O.K.”.

     E riattaccarono. Ma lo seguirono per un po’ col binòcolo: lo vedevano, lo perdevano di vista, per poi rivederlo un po’ più in alto. E intanto commentavano.

     Continuava a salire, Rasputin, anche se un po’ a fatica. Si trovava ora sulla parte più alta del pendio; la temperatura era di molto diminuita, lingue di neve fasciavano alcune rientranze; anche la vegetazione era cambiata: i boschi di querce e castagni avevano lasciato il posto ad abeti e pini; e, già da un pezzo, non incontrava più nessuno.

     Squillò ancora il telefonino: chiamavano ancora dalla trattoria: “Torna indietro, Rasputin, attento, si sta annuvolando!”.

     “Sì, ritorno”, rispose.

     Invece continuò a salire. Erano apparse, infatti, delle nuvole, ma Rasputin non ci aveva neppure fatto caso; ma ora cominciava a soffiare anche il vento. Continuava a salire: qualcosa d’indefinibile lo attraeva verso la vetta.

     “Non è facile, poi resistergli”, aveva detto uno della comitiva. Proprio così.

     Mancava poco al tramonto, ma il sole era da un pezzo scomparso. Cominciava a farsi buio e il vento si fece più impetuoso, soffiava a raffiche, spargendo nevischio. Improvvisamente scoppiò una bufera.   Ormai era tardi per tornare, avrebbe passato la notte in qualche anfratto. Continuò a salire.

     Rasputin era ormai un puntino nero in movimento quasi sulla vetta innevata. Squillò ancora il telefonino, ma nessuno rispose; poi suonò ancora, a vuoto: evidentemente non funzionava più. Infatti, i paesani dalla Vecchia Quercia ripetevano inutilmente: “Torna indietro, Rasputin, torna indietro!”.

     All’improvviso, con un rumore rombante, apparve Marmellon. Era molto più orribile di come gliel’avevano descritto: una spaventosa convulsione di nubi intorno ad un nucleo, un occhio fosco. Era adirato, forse perché qualcuno aveva osato violare il suo regno. Istintivamente, Rasputin, inorridito, chiuse gli occhi,  e cadde in ginocchio.

     Ancora una raffica di vento, più impetuosa delle altre, e Rasputin fu travolto, spazzato via.  Ai piedi di Marmellon,  di quell’orrendo mostro.

 

 

 

 

 

 

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Commenti più recenti

14.11 | 17:22

buonasera Beniamino, sono Rossana dell UNITRE, vorrei acquistare il suo libro in duplice copia, come mi devo regolare?Lei come sta? Scrive nuovi libri? SALUTI

13.12 | 17:28

bravo Beniamino, ammirevoli la costanza, la bravura, l'impegno nella stesura di queste opere, così complesse, con risultati veramente eccellenti